s k y / l i n e, The Avengers - Mistery Weekly Table-y

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Elos
view post Posted on 3/9/2013, 22:42




Questa storia nasce per l'iniziativa della Mistery Weekly Table-y indetta su Pseudopolis Yard.

Avrei voluto riuscire a completare tutta la storia entro i termini della settimana (abbondante) dell'iniziativa, ma un esame, una tesi ed una serie di sfortunati eventi hanno congiurato contro di me; e, poiché c'era la possibilità di pubblicare il primo capitolo della storia (o i primi capitoli della storia) e basta, purché contenessero almeno tre dei prompts richiesti, ho deciso di approfittarne.

La storia conterrà, nella sua versione definitiva, 24 dei 25 prompts della tabella. Il 25esimo, l'avvertimento AU, è presente nella storia solo se si considera l'AU come fanno nel fandom anglosassone. Qui in Italia generalmente lo chiamiamo What if...? ed abbiamo una visione molto più ristretta di cosa sia AU.
Per cui, 24 su 25. x°D

Alcuni particolari - importanti - dell'universo della storia sono diversi da quello dei Marvelmovieverse (supercalifragilistichespiralidoso... ecco, adesso ditelo al contrario e senza pronunciare le e).

La storia nella sua completezza sarà pubblicata probabilmente solo sul mio account EFP. Considerate questa prima parte come un assaggio.
Vi fa venire voglia di leggere il seguito o è una noia bestiale? No, perché la fisica degli ultimi capitoli già mi guarda sbattendo le sue lunghe ciglia di incomprensibile matematicità, e sarà un macello farsi largo da quelle parti. x°°°D

Venti punti a chi trova tutti i prompts che ho usato in questo primo pezzo, dove li ho usati e come li ho usati.

Terrò per me la spiegazione del titolo, per il momento. E' complicata e contorta ed ha senso solo nella mia testa, probabilmente, e queste note introduttive sono già belle lunghe di per sé.







Quando anche l'eco delle esplosioni si spense, l'onda del primo attacco sedata solo perché non era rimasto più molto da attaccare, con la cenere che si depositava pesantemente sul terreno e sulle macerie e il fumo denso degli incendi chimici che saliva a coprire il cielo – nuvole nere e grasse, l'odore delle città del futuro che bruciavano, benzina e metano, piombo, plastica e diossine – quando anche l'eco delle esplosioni si spense, ebbene, finalmente scese il silenzio.
Nel silenzio, Tony pensò che gliel'avevano detto. Thor. Thor gliel'aveva detto. Thor, che aveva la faccia di qualcuno che usava la scatola cranica solo per tenere le orecchie separate e avere uno spazio per farci crescere sopra i suoi fottuti boccoli d'oro, Thor, i neuroni del quale si poteva anche pensare fossero annegati nel testosterone, Thor, be', Thor gliel'aveva detto.
Avevano acceso il Tesseract, e il Tesseract era come il pupazzo delle scatole a sorpresa, una volta che era fuori non potevi... non potevi semplicemente rimetterlo dentro, richiudere il coperchio e dimenticartene, non bastava cambiargli stanza, buttarlo via, regalarlo a qualcuno, il Tesseract era un pupazzo a sorpresa maledettamente appiccicoso. Come un faro, una torcia, il Tesseract aveva segnalato a tutto e tutti nel raggio di una galassia e mezza che c'era qualcuno, lì sulla Terra, un mondo attivo e funzionante e che aveva potere, un mondo abitabile, da colonizzare.
La questione era: l'universo era dannatamente grosso. Forse non infinito: alcune delle cose che arrivavano da Asgard sotto forma di arcane proclamazioni allucinate, e che la dottoressa Foster si occupava di tradurre in un linguaggio scientificamente plausibile, facevano pensare che ci fossero dei bordi, da qualche parte, confini, e che la permeabilità dell'universo funzionasse più lungo l'asse del tempo e delle possibilità che in un piano spaziale. Non infinito, perciò. Ma grosso. Molto, molto, molto grosso.
Trovare un mondo che valesse la pena di conquistare, così, era come cercare il proverbiale ago nel pagliaio – con un pagliaio costellato di buchi neri che variavano spazio, luce e gravità, tanto per rendere la ricerca più interessante, e dove l'ago continuava a spostarsi su, giù, a destra e a sinistra seguendo tutta una serie di traiettorie curvilinee.
Ma loro avevano avuto il Tesseract tra le mani, e l'avevano acceso, e Thor aveva detto che era stato un segnale, il segnale, che la Terra era pronta ad una più alta forma di guerra.
E Tony, be', Tony aveva pensato: diamine, sì. Avevano la tecnologia e avevano le armi e avevano lui, e avevano Steve Rogers, Capitan America, il meglio che la bioingegneria e l'eugenetica fossero riuscite a produrre, e avevano... e avevano un Hulk, Dio, Hulk, Hulk sradicava palazzi e smontava i carri armati a mani nude e apriva grossi crateri nelle città. Nel giro di un decennio avrebbero avuto energia pulita e rinnovabile distribuita su tutto il pianeta; se tutto fosse andato bene, nell'arco di vent'anni avrebbero potuto cominciare a pensare a sistemi di trasporto spaziale veramente funzionali, e la Foster stava lavorando a qualcosa che avrebbe fatto apparire il teletrasporto dell'Enterprise come un'invenzione amatoriale, un Bifrost terrestre, fatto dai terrestri con tecnologia terrestre, meglio di quella mistica roba scintillante che avevano su Asgard e che Thor era riuscito a buttare giù a martellate.
Tony aveva pensato non si potesse essere più pronti di così. Che venissero pure, e li avrebbero trovati pronti. Che venissero.

Ma poi, be'.
Poi erano venuti.



s k y / l i n e





1.

I grattacieli erano stati i primi a crollare: quando la gravità sopra New York era aumentata di sedici volte nell'arco di undici secondi netti, il peso del cemento aveva piegato le travi d'acciaio come fossero state fatte di burro. Con uno scricchiolio sordo e prolungato che era stato come un unico, atroce lamento torturato, la linea dell'orizzonte era sembrata appiattirsi.
Pochi lo sanno, ma l'accelerazione gravitazionale su Giove è poco superiore a due volte e mezza quella terrestre. Due volte e mezza: che è come dire che uomini di ottanta chili si trovano a pesarne improvvisamente duecento.
Quando la gravità era passata da uno a sedici in un raggio di trenta chilometri a partire dal centro di Manhattan, alcuni, molti, erano morti perché gli edifici erano crollati loro addosso, schiacciati tra lastre di pietra e macerie e travi che si erano trovate improvvisamente otto volte più pesanti. Erano stati quelli fortunati: per gli altri, quelli che erano in strada, quelli che stavano scappando, quelli che erano rimasti incastrati, scampati ai primi crolli, la cosa doveva essere stata più lunga. Doveva essere stata una brutta morte, con cuori e polmoni che cercavano di tirare avanti sotto una pressione sedici volte maggiore, e crani non pensati per sopportare lo schiacciamento, e le ossa, il peso della carne sulle ossa, cinquanta, sessanta chili moltiplicato sedici sessanta chili, che è il peso medio di una donna, sessanta chili moltiplicato sedici fa novecentosessanta chili.
La Freedom Tower era venuta giù per prima, e da lì era stato come un domino, il Chrysler Building, il Trump Building, Spruce Street. La Torre Stark aveva resistito solo una frazione in più rispetto a tutto il resto: mentre il resto della skyline di New York si afflosciava crepitando, la Torre Stark aveva vacillato, si era piegata, e aveva tentennato per quei due, tre secondi che i sensori e le telecamere avrebbero registrato, poi, e che Tony avrebbe visto e rivisto e riguardato e riguardato e riguardato attraverso un migliaio di punti di vista diversi, un migliaio di registrazioni diverse.
Il Grand Central Terminal era come una carcassa sventrata: era stata così anche il giorno dopo l'attacco dei Chitauri, il giorno dopo Thanos e dopo i Leviatani, la stazione era stata aperta e rotta e c'era stato il cadavere di una balena gigante a marcire nell'androne – ma c'era stato il cadavere di una balena gigante a marcire nell'androne, la cosa che l'aveva rotta e aperta ed eviscerata, ed era stato... era stato meglio. Era rimasto qualcosa di visibile. Di tangibile. Qualcosa da poter toccare.
La cosa che aveva cambiato la gravità intorno a New York non si era lasciata niente alle spalle: anche le navi aliene si erano spostate altrove, verso altre città, altri continenti, altri posti da conquistare. L'ultima volta che la flotta era stata avvistata, si stava disperdendo al di sopra dell'Atlantico.
Se fosse rimasto qualcosa dell'attacco, qualche segno, all'infuori delle macerie e dei corpi, sarebbe stato meglio. Se avesse piovuto, anche, sarebbe stato meglio: ci voleva acqua, tanta acqua, su tutta New York. Tanta acqua per lavare via il sangue. Tanta acqua per lavare via i pezzi.
C'era il sole, invece, e sotto il sole il silenzio era ancora più opprimente, come una cappa, con il ronzio degli insetti e il cauto gracchiare degli uccelli tra un edificio e l'altro. Ad un angolo sgombro di una strada in Little Italy qualcuno era rimasto schiacciato sotto agli evidenti resti di una vespa rossa – perché gli stereotipi a New York erano vivi e vegeti, e godevano sempre di ottima salute, grazie tante. Il visore dell'armatura avrebbe detto a Tony che si trattava di un cadavere se anche non ci fosse stata nessuna grossa chiazza di sangue secco.
Rogers si sedette su una lastra rovesciata di cemento. Posò i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani, e chiuse gli occhi.
Era colpa del sole, pensò Tony. Sotto al sole i corpi erano bianchi, le macerie nette. Nessun angolo di buio a nascondere i resti del massacro. Sotto al sole tutto era più netto, e l'orrore, l'orrore. L'orrore. Aveva un colore più crudo, così.
Sollevò l'elmetto, perché tutta l'energia del reattore era rivolta al momento rivolta ad altro – ai sistemi di scansione, di rilevamento, sensori e videocamere, e ad un audace tentativo di incamerare e registrare quante più informazioni gli fosse possibile recuperare dalle telecamere di tutta New York – che non fosse il sistema di refrigeramento, e, senza aria condizionata, dentro all'armatura si arrivava ad una temperatura media di trentotto gradi.
Si leccò le labbra, il gusto amaro della polvere e del sale a rendere ancora più acuta la sete:
“Ci vorrebbe una birra,” osservò; e poi, perché non gli era mai piaciuto dover avere a che fare con il silenzio, e quella che era calata su New York era una qualità di silenzio particolarmente oscena: “O un Long Island.”
Nel silenzio la sua voce risuonò come un colpo secco; spaventò a morte un paio di piccioni, che presero il volo in un frullio d'ali agitate, e riecheggiò tra le macerie. Aveva aperto bocca nella speranza di causare una reazione in Rogers, ma Steve si limitò a intrecciare le dita, strofinandosi le mani contro la fronte, e ad alzarsi in piedi. Si era tolto il cappuccio dell'uniforme quando avevano messo piede a New York: cose come le maschere, le divise, erano sembrate perdere di senso di fronte alla Manhattan piena di sole, di rovine, trasformata in una fossa comune a cielo aperto.
Aveva la faccia stanca, vecchia come di un milione di anni, e Tony pensò che aveva visto la Seconda Guerra Mondiale, i campi di battaglia in Europa e forse i campi di concentramento, i laboratori del Teschio Rosso e un bel po' del peggio che l'umanità era stata capace di tirare fuori nel corso del Ventesimo Secolo, ma neanche Steve aveva mai visto precisamente questo, prima, New York in pezzi e nessuno aveva potuto fare niente per impedirlo, nessuno aveva avuto il tempo di fare qualcosa per fermarlo, e tutto quel che era rimasto era una skyline schiacciata.

Proseguirono ancora un po' attraverso il centro di New York: non perché si aspettassero veramente di trovare qualcuno ancora vivo – le ultime notizie arrivate dall'Elivolo ne avevano, a tutti gli effetti, escluso la possibilità – ma perché erano lì, ormai, e non era come se ci fosse un posto, altrove, dove avrebbero potuto essere più utili.
Tony continuò a filtrare l'input delle registrazioni sopravvissute al massacro: volava avanti di qualche metro, precedendo Rogers, e poi tornava indietro spinto dall'impressione tremenda che, se avesse perso Steve di vista, questi si sarebbe dissolto nel nulla.
Finirono per attraversare tutta Manhattan.

Manhattan, popolazione in data 6 aprile 2014: 1.823.013 abitanti.
Popolazione in data 7 aprile 2014? Loro due, e un'orda di piccioni.

0.

Il mondo era finito la domenica mattina.
Il che, secondo il parere di Tony, era dannatamente anticlimatico. Venerdì, ecco: venerdì era un buon giorno per l'Apocalisse. O anche lunedì, perché, be', perché a nessuno piace il lunedì, il lunedì è un giorno eccezionale per la fine del mondo, qualunque cosa pur di non far ricominciare la settimana e di non dover tornare al lavoro. Tony non era mai tornato al lavoro di lunedì mattina, mai una volta in tutta la sua vita, perché il lavoro era sempre stato qualcosa che capitava agli altri o che, quando capitava a lui, capitava in dosi massicce, che non tenevano conto di stronzate come i calendari e i giorni della settimana.
Perciò, domenica mattina. Aveva cominciato a piovere poco dopo l'alba, il cielo era stato pieno di nuvole. Avevano visto la fine di tutto.

Era cominciato con una spaccatura nel cielo: una faglia, come quella che il Tesseract aveva aperto due anni prima, solo un centinaio di volte più larga.
Il centro della spaccatura aveva coinciso precisamente con l'area di cielo al di sopra della Torre Stark – e, ehi, per credere che quella fosse una coincidenza ci sarebbe voluto proprio un grosso pezzo d'imbecille.
Nessuno di loro era stato all'interno della Torre nel momento in cui il cielo si era aperto, ed era solo per quello che erano sopravvissuti. Davvero.

Dal momento in cui la crepa aveva cominciato ad aprirsi a quello in cui New York era stata distrutta erano passati solo sei minuti.
Sei minuti. Se anche fossero stati tutti lì, aveva pensato Tony, dopo, se anche fossero stati tutti pronti, non ci sarebbe stato il tempo di fare niente.
Sei minuti. Con sei minuti non ci cucini neanche un uovo sodo.

Il primo minuto, metà di New York non si era accorta di niente e l'altra metà non aveva capito cosa stesse accadendo ed era rimasta con il naso alzato, così, semplicemente a guardare il cielo spaccarsi. JARVIS aveva rilevato l'output anomalo di energia, radiazioni e frequenze sopra Manhattan e l'aveva segnalato a Tony. Da Malibù, Tony aveva girato la segnalazione allo S.H.I.E.L.D. ed aveva attivato il Mark XLIIbis mentre correva verso la balconata che dava sulla scogliera. Nel corso dei mesi aveva perfezionato sia i sensori che la tecnica di salto: buttarsi ed aspettare che l'armatura gli si chiudesse attorno, adesso, non gli dava neanche più quei cinque orribili decimi di secondo di terrore nei quali si chiedeva se questa sarebbe stata la volta buona che, zak, un minuscolo guasto nel chip, nell'armatura, nei repulsori, e di lui sarebbe rimasta solo un'interessante frittella spalmata sugli assolati scogli della California.
Il secondo minuto, Tony era stato in volo verso New York.
Traiettoria determinata,” gli aveva annunciato JARVIS in un orecchio. “Tempo stimato all'arrivo: quarantasette minuti.
Volare a Mach 5 comportava la necessità di un certo numero di calcoli e di una mano estremamente ferma: un piccolo movimento incontrollato, che so, un tentativo abortito di grattarsi una chiappa, e si sarebbe tornati alla questione dell'interessante frittella di cui sopra. Se si fosse schiantato contro il suolo a, be', approssimativamente millecinquecento metri al secondo, di lui non ne sarebbe rimasto abbastanza per riempire una scatola.
Al terzo minuto, Tony era stato immerso fino alle orecchie nel flusso di dati in arrivo da New York. E non era solo New York: erano Seoul e Pechino e San Paolo e Nuova Delhi, e c'era una faglia che andava allargandosi sopra i Paesi Bassi e una all'altezza dell'Africa Centrale, dalle parti di Lagos, e...
“Figli di puttana,” aveva detto Tony, e poi aveva aggiunto qualcosa di assolutamente irripetibile, prima di ordinare: “Chiama Banner.”
Un momento di pausa.
“<i>Il telefono del dottor Banner è spento, signore, e il dottore non si trova nell'area della Torre.

Dannazione.
“Cerca Happy. E chiamami Fury.”
JARVIS aveva chiamato Fury, e Tony aveva passato la seconda metà del terzo minuto cercando di spingere l'armatura oltre Mach 6. Aveva avuto l'impressione di sentire nitidamente un paio di giunture scricchiolare.
Mi permetto di farle osservare, signore, che l'idraulica del Mark XLIIbis non è stata testata per queste velocità.
Tony grugnì.
“Dove diavolo è Fury, in bagno? E' per questo che non risponde alle chiamate, è sulla tazza e non riesce a fare due cose contemporaneamente?”
Elivolo in linea.
“Stark.”
Fury non suonava più stressato del solito: il che poteva essere un buon segno (“Ho la situazione sotto controllo, non c'è ragione di andare nel panico.”), un pessimo segno (“Sta andando tutto in malora e qualcuno tirerà la catena di questo cesso da un momento all'altro, ma non voglio ancora che tu lo sappia.”), o il segno che, molto semplicemente, quelli dello S.H.I.E.L.D. non avevano la più pallida idea di che cosa stesse succedendo, ma erano anche consapevoli del fatto che davvero non fosse il caso che la cosa si risapesse in giro.
“Oh, ehi, buongiorno, Nick, con comodo, non c'è fretta.”
“Dove sei?”
Jarvis gli spalancò volenterosamente una mappa sul visore, fornita di un'utilissima freccetta rossa puntata verso una città che Tony non aveva mai sentito nominare prima:
“Nipton, da qualche parte tra Buco di Niente e Vuotolandia. Direttore, si stanno aprendo buchi in tutto il mondo. Stanno distribuendosi sopra alle metropoli. Le aree popolose, e mandano...”
E si interruppe così: perché, più o meno a metà del quarto minuto, le faglie avevano cominciato a vomitare fuori navi aliene, e non i piccoli, veloci carri volanti del primo attacco dei Chitauri, o i Leviatani, ma costrutti neri e infiniti come le proiezioni di un incubo.
Le immagini che JARVIS gli passò sul visore, provenienti dalle telecamere di Manhattan e Seul, mostravano che i buchi nel cielo avevano vomitato cose che avrebbero fatto sembrare la Morte Nera un giocattolo, costruzioni come il folle prodotto di un'ibridazione tra Gormenghast, un incrociatore romulano e qualcosa che avrebbe potuto uscire dalla penna di Escher, se Escher fosse stato un ingegnere con un grosso disturbo della personalità ed un senso malato dell'immaginazione; costruzioni così catastroficamente enormi che l'Elivolo sarebbe stato tranquillamente inghiottito nel fondo di una di esse, tanto grosse che per un attimo tutti quelli – ed erano in pochi – che non erano già stati affacciati alle finestre a guardare la faglia nel cielo avevano visto la luce del sole affievolirsi ed avevano creduto che si trattasse di un'eclissi.
Dall'altra parte dell'elmetto arrivò il suono di dieci secondi di panico nella sala comandi dell'Elivolo.
La voce di Fury, invece, suonava come la voce di qualcuno che sapeva cosa fosse un attacco di panico, sicuro, ed era assolutamente certo che si trattasse di qualcosa che capitava solo agli altri:
“Quello di New York è il più vicino. Rogers e Barton sono su un Quinjet, Romanoff si sta mettendo in contatto con il dottor Banner. Tra quanto puoi essere lì?”
Tony si sforzò di premere su un metaforico acceleratore. Tutta l'armatura protestò nello sforzo, i repulsori vibrarono ferocemente e lui ebbe la nitida sensazione che il reattore che aveva in petto perdesse un colpo all'output di energia, ma gli alieni erano a New York, gli alieni erano nei cieli del resto del mondo, e il modo in cui si erano distribuiti e il modo in cui si stavano comportando e quei fottuti buchi nel cielo, tutto faceva pensare che non fossero arrivati con le più amichevoli delle intenzioni.
A New York c'era Happy. C'era Bruce. Otto milioni di persone.
“Trenta minuti,” disse a Fury.

E poi arrivò il sesto minuto e la flotta aliena tirò fuori l'artiglieria pesante, e metterci trenta minuti o quarantacinque o centocinquanta, a quel punto, perse di senso.

1.

Dal bordo di una lastra di cemento in pezzi, all'estremità di un cumulo di macerie che era tutto quel che rimaneva dell'edificio dello Starbucks all'angolo tra la Centoquarantacinquesima e Bradhurst Avenue, sporgevano ancora un paio di mani protese; e si sarebbe potuto immaginare appartenessero alla stessa persona, tanto erano vicine, se non fosse stato per il fatto che una delle due mani era piccola, piccolissima, proprio come una mano di...
In lontananza si vedeva ancora il profilo troncato della Torre Stark, crollata sotto il suo stesso peso: Tony tenne gli occhi su di essa e finse di non vedere Steve che si inginocchiava accanto alla lastra e di non sentire quel l'eterno riposo dona loro o signore che non significava niente, davvero, e meno che meno significava in quelle circostanze, e la cosa migliore che lui potesse fare, perciò, era continuare a guardare nella direzione opposta e dare a Rogers cinque minuti. Solo cinque minuti, prima di rimettersi in viaggio.

-1.

“Sii sincero, ti sono mancato.”
“Credo che tu mi abbia scambiato per Pepper. E' un errore comprensibile. La differenza diventa comunque evidente una volta notata la scarsità di lunghe estremità pilifere di colore rosso sulla sommità del capo, qui, nell'area compresa tra il loro frontale anteriore, i padiglioni auricolari e la nuca, e una volta rilevata la completa mancanza di una coppia di organi ghiandolari, anche detti mammelle, nella parte anteriore del...”
“Non posso credere che tu abbia detto mammelle.”
“Stavo per arrivare alla parte migliore, nella quale ti avrei fatto rilevare l'inconfondibile presenza di elementi estranei alla figura dell'elemento Pepper, quali...”
“Mammelle. Mammelle. Mammelle. No, niente da fare, continuo a... non puoi averle chiamate davvero mammelle, chi è che le chiama mammelle, e soprattutto chi sei tu e che cosa hai fatto con Banner, avanti, tiralo fuori, so che è lì da qualche parte.”
Bruce gli aveva sorriso. Bruce era di buonumore spesso e volentieri, ultimamente; il suo buonumore aveva a che fare con il fatto che la dottoressa Ross adesso conducesse un laboratorio a Philadelphia, a poco più di due ore di treno da New York, e con l'improvviso, inspiegabile pensionamento di un certo generale Thaddeus Thunderbolt Ross, del glorioso Esercito degli Stati Uniti d'America, ritiratosi ad una serena vecchiaia con tutti gli onori del caso, medaglia, discorsetto, grazie per aver servito il suo paese, bla, bla, bla.
Tony aveva il fondato sospetto che un venti per cento abbondante della responsabilità del suddetto pensionamento fosse di Nick Fury, ma aveva, per una volta, tutte le intenzioni di tenere la bocca ben chiusa sull'argomento.
“Ricordo chiaramente che mi era stata promessa una Macchina Z, Tony,” aveva detto Bruce. “Ho il nitido ricordo di essermi sentito dire: ehi, Albuquerque, Albuquerque, che razza di posto si chiama Albuquerque, qualunque cosa facciano ad Albuquerque, io posso farla meglio. Questa frase è la ragione per la quale in questo momento non sono in New Mexico con Jane.”
“Jane si nutre di merendine, tacos e caffé, Bruce, passare del tempo con lei non fa bene alla tua linea.”
“Quantomeno Jane ha apportato variazioni alla tua triade di caffè, caffè ed altro caffè.”
Dall'altra parte dello schermo, il viso di Bruce aveva piccole rughe felici agli angoli degli occhi e larghe pieghe del sorriso ai lati della bocca. Era sbarbato di fresco, si era tagliato i capelli con cura, aveva una camicia pulita che sembrava aver incontrato di recente un ferro da stiro. Indossava bene la felicità, come un vestito comodo e leggero, come un regalo e una sorpresa, inaspettata.
“Due giorni e sono a New York,” aveva promesso Tony.
Il sorriso di Bruce si era allargato e colorato di una punta di eccitazione che aveva fatto apparire l'uomo dieci anni più giovane.
“Bene,” aveva detto. “Perché ho qualcosa da farti vedere.”
“Oh, Bruce, Brucie, non dovevi... è un anello? Dovrò parlarne con Pepper, perché, vedi, ho questa specie di bizzarra regola a proposito dell'accettare regali ciambelliformi da persone che non siano Pepper...”
“Tengo l'anello per San Valentino,” aveva replicato Bruce, senza lasciarsi distrarre. “Questo è meglio.”
“E non è ciambelliforme?”
Bruce ci aveva pensato su.
“Potenzialmente ciambelliforme. Attualmente, è composto di una schermata di formule, ma potrebbe essere ciambelliforme. La ciambella più costosa della Terra.”
“Quarantotto ore,” aveva promesso Tony. “Quarantotto ore e sono da voi.”

1.

Perciò, Bruce era stato a New York quando il cielo si era aperto – non nella Torre Stark, ma sempre a Manhattan, probabilmente... all'Università, magari, perché teneva un corso semestrale sulla fisica delle particelle, adesso, ma era stata domenica, no? Di domenica non ci sono corsi. Non ci sono studenti. Forse ai laboratori nel Queens o forse... forse...
Bruce era stato a New York e adesso non c'era traccia di qualcosa di grosso e verde da nessuna parte, e neanche di qualcosa rosa e piccolo – che respirasse – e questo poteva voler dire... poteva voler dire molte cose, poteva non voler dire niente, ma Hulk non si vedeva da nessuna parte e Tony aveva fatto affidamento su Hulk, dannazione, per tenere Bruce salvo. Se Happy era stato a Manhattan, Happy era morto.
Tony cercò di non pensarci.
Hulk sfidava la legge di conservazione della massa e la costante di Planck e una buona metà dei principi sui quali si basava la fisica quantistica, e Tony gli aveva visto tenere su roba più grossa di... di sedici volte la sua massa, sedici volte la sua massa era comunque niente, Hulk aveva buttato giù una navetta aliena a pugni, per la miseria, le leggi della natura e del buonsenso avrebbero voluto fosse materialmente impossibile; ma Tony non aveva idea di come funzionasse, dentro, di cosa lo facesse ticchettare, perché nessuno aveva mai eseguito una biopsia su Hulk e i metodi meno invasivi – TAC, radiografie, risonanze – interferivano con i raggi gamma e non davano risultati.
Hulk avrebbe dovuto essere sopravvissuto. Se qualcuno poteva farcela, era Hulk. Ma Hulk non c'era da nessuna parte, niente chiappe al vento, grandi e grosse e verdi, quelle era difficile passassero inosservate.
“Chiama Pepper,” disse a JARVIS, prima di ricordarsi che non c'erano più satelliti e non c'era più una linea, e questo significava che per il momento non c'era più neanche JARVIS.
Tony ebbe l'impressione che qualcuno gli avesse cacciato una manciata di qualcosa di caldo e ruvido in gola, e dovette inghiottire a vuoto un paio di volte per cercare di mandare giù.
Rogers si era lasciato alle spalle lo Starbucks crollato e la lastra di cemento e le mani intrecciate. Gli si fermò accanto e Tony ebbe per un attimo l'orribile presentimento che gli avrebbe posato una mano sulla spalla; ma Rogers si limitò a sistemarsi meglio la cinghia dello scudo su una spalla e ad affermare:
“Barton e Romanoff ci aspettano tre undici minuti a Central Park.” Perché Steve Rogers aveva un maledettissimo orologio da polso che andava a batteria e che caricava con una rotella, probabilmente, e cose come il crollo della rete satellitare in orbita attorno alla Terra non avevano minimamente sballato la sua percezione del tempo. Non avevano sballato neanche quella di Tony, ma questo era possibile solo perché Tony era Tony e l'orologio dell'armatura non era veramente dipendente dagli aggiornamenti satellitari. “Faremo meglio ad incamminarci.”
“E' stato un viaggio a vuoto,” disse Tony, amaramente. Fece per girarsi, ma la mano di Steve gli si piantò sul braccio e lo trattenne.
Tony represse la sensazione della pelle che gli si accapponava attorno al punto di contatto: sapeva che era tutta immaginazione, un prodotto della sua mente, perché... be', perché c'era l'armatura di mezzo, non poteva sentire niente. Ma era un prodotto della sua mente dannatamente efficace.
Steve, che non sembrava essersi accorto del suo disagio, lo guardò dritto negli occhi:
“Non a vuoto.”
“Non c'è niente di vivo tra qui e Filadelfia, ad esclusione di noi due, di un esercito di scarafaggi e di un'invasione di piccioni. Abbiamo fatto il viaggio a vuoto, Capitano; tu hai consumato mezzo centimetro di suola di scarpe ed io ho bruciato il dodici per cento delle riserve dell'armatura. A vuoto.”
“Non a vuoto,” ripeté Steve, più fermamente. Tony vide la sua mano flettersi attorno al braccio dell'armatura; se non fosse stata ricoperta dal guanto, pensò, con una strana sensazione di distacco, avrebbe visto le nocche sbiancarsi. “Non avresti voluto vederlo?”
Tony aprì bocca per dire cazzo, no, perché, Dio, no, non avrebbe voluto, vederlo, cosa, il cimitero aperto di New York, sventrato, le viscere della città, morte delle città del futuro e la skyline contorta e Bruce che non c'era da nessuna parte ed Happy che doveva essere sotto le macerie, e Tony poteva solo sperare che fosse stato uno di quelli che erano morti in fretta, subito, senza soffrire troppo, Katia della caffetteria della Torre e i due tizi della sorveglianza del fine settimana e il ragazzo delle consegne della pizzeria all'angolo e i suoi robots che erano grosse schegge di metallo e non molto altro, adesso, e lui lo sapeva e l'aveva visto e...
E poi chiuse la bocca, perché sì. Faceva male ed il dolore sembrava fondersi e contrarsi come in un punto unico e, come in un acceleratore di particelle, le frazioni di quel dolore così piccolo e compatto si schiantavano a velocità assurde le une contro le altre e generavano una rabbia sorda, cieca, focalizzata.
Steve lo lasciò andare.
“Undici minuti,” disse. Lo disse in un tono piatto e piano, ma non privo di gentilezza. Steve aveva gli occhi più azzurri che Tony avesse mai visto, di un azzurro così azzurro da non sembrare neanche del tutto umano. “Faremo meglio a muoverci.”
Si incamminò in direzione del moncone della Torre Stark. Dopo un momento d'immobilità, Tony lo seguì.
 
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