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TITOLO:
Quel che dicono delle fateFANDOM:
La Bella e la Bestia (
Disney)
PROMPT: Belle/Bestia, vero più che mai (richiesto da
Trick No Treat)
NOTE: Non credo che una sola parola di quel che ho scritto possa essere possibile in nessuno dei potenziali universi alternativi del film. x°D Neanche una parola.
(Tranne una delle considerazioni che ho infilato da qualche parte - *SPOILER*: il principe doveva essere punito, fantastico, ma tutti i benedetti servitori del castello che c'entravano? Mica avevano sputacchiato sulla fata, loro. Tipicamente Disney, questo includere i servitori nella principesca punizione, come fossero decorative parti del suo corpo. Mah.)
AVVERTIMENTI:
What if...?; riferimenti al tema del suicidio.
Questo è quel che ti dicono delle fate: le fate sono belle. Belle e potenti. Le fate hanno la magia nella punta delle dita e sotto la pelle, sono giuste, sanno insegnare, conoscono la verità, le fate, sono antiche e sono immortali, hanno visto sbocciare e sfiorire regni e imperi e casate, guardano al mondo con occhi vecchissimi. Questo è quello che ti dicono delle fate.
Questo è quel che non ti dicono delle fate: le fate non sono umane.
Le fate sono belle. Parlano della vera bellezza nel cuore, ma si mostrano al mondo con la bellezza negli occhi, sono e non sono belle, nessuno sa che pelle abbia una fata sotto alla magia, perché le fate hanno la magia nella punta delle dita e sotto la pelle. La magia è la pelle delle fate.
Le fate sono giuste com'è giusto il sole, un vulcano, una cometa, giuste della giustizia cosmica, lontanissima da ogni pietà. Insegnano la verità, le fate, tutta la loro verità, nient'altro che la loro verità, sono antichissime e sono immortali, hanno visto sbocciare e sfiorire regni e imperi e casate, guardano al mondo con occhi vecchissimi e questo dà loro
prospettiva.
La Bestia sospetta che sia questa la ragione per la quale sta venendo punito.
Prospettiva.
A sedici anni, la Bestia aveva avuto un nome. Era stato giovane e bello e ricco, ed egoista, viziato, cattivo. Aveva avuto un regno da governare e l'aveva fatto malamente e con noncuranza: le carestie e le pestilenze erano passate con più durezza di quanto fosse necessario, c'erano stati più morti del dovuto ad ogni rissa d'osteria, più orfani e più vedovi e più genitori costretti a seppellire i propri figli nati morti e morti bambini, più tasse e meno giustizia, carceri più piene e forche più attive.
Così, la fata era venuta ed aveva amministrato giustizia.
A diciassette anni, la Bestia aveva avuto un corpo deforme ed una rosa in un barattolo di vetro.
A diciotto anni, la Bestia aveva urlato e imprecato, aveva bestemmiato contro Dio e gli uomini e le fate, aveva bruciato i suoi vecchi vestiti e rotto tutti gli specchi nelle sue stanze e lacerato ogni libro che gli ricordava come fosse difficile girarne le pagine, adesso, come fosse
complicato scrivere e studiare quando non si avevano più le dita per farlo. Avrebbe voluto leggere storie, la Bestia, scappare nei racconti degli altri per sfuggire al proprio. Ma non sarebbe stato
giusto, doveva aver pensato la fata, non sarebbe stato
equo. Niente pollici opponibili per la Bestia. Niente dita prensili.
A diciannove anni aveva scoperto di riuscire ad arrampicarsi senza fatica fino al tetto più lontano della torre più alta del suo castello: e così a vent'anni aveva guardato giù, giù, lontanissimo nel crepaccio e nel dirupo, e si era detto che... tutto sommato, si era detto che...
Non aveva ancora compiuto ventun anni, il giorno in cui era arrivata Belle.
A quel punto, la Bestia non aveva più avuto un nome ed aveva già trascorso cinque anni, dodici mesi moltiplicato per cinque, cinque primavere piovose e cinque estati grigie, cinque autunni senza sole e cinque inverni senza luce, nel castello in cui non arrivava mai la bella stagione, con una rosa in barattolo ed uno specchio che non riusciva a rompere ed una legione di servitori orribilmente trasformati a tenergli compagnia.
Questa è un'altra cosa che non si riesce a spiegare.
La Bestia ricorda chiaramente la sfortunata giornata in cui aveva tirato una tazza di brodo bollente addosso al cuoco, pover'uomo. Ricorda ogni mala parola rivolta a Tockins, ogni insulto sprezzate dedicato a Lumiére, ogni noncurante sgarberia che era toccata alla signora Bric, ad una delle cameriere, a ciascuna delle decine di persone che gli spazzavano le stanze, gli pulivano le camere, gli preparavano la cena. Ricorda che erano stati le sue vittime – come la gente del suo regno, anche loro ostaggi del suo egoismo e dei suoi malumori. Eppure, la fata li aveva messi tutti nel conto: tutti nella maledizione, tutti insieme, vittime e aguzzino, tutti prigionieri del castello senza sole, tutti deformi, oscenamente mutati, tutti privati della propria umanità.
Sono passati tanti anni, che poi sono diventati decenni e che tra poco saranno un secolo: ma questo la Bestia non riesce ancora a spiegarselo.
La signora Bric non aveva mai, mai, mai, fatto nulla in vita sua per il quale dovesse essere punita. La signora Bric era stata buona e paziente e misericordiosa e l'avevano sepolta con gran dolore nel mezzo del giardino del castello, sotto a un fascio di cespugli di rose bianchissime e di lavanda. Belle aveva pianto molto e si era tenuta stretto Chicco al petto; tre anni dopo Chicco aveva avuto una coppia di gemelli tutti suoi da tenere in braccio e la Bestia aveva pensato che fosse terribilmente ingiusto, terribilmente sbagliato, che la signora Bric non avesse vissuto abbastanza a lungo da veder nascere i suoi primi nipoti.
La Bestia guarda Lumiére e Tockins, oggi, e si dice che in
prospettiva la morte della signora Bric vada considerata un dono. Un regalo. Un bellissimo regalo, il buon Dio ha avuto pietà di lei e l'ha lasciata a riposare sotto la lavanda e le rose.
Certe volte si chiede cosa troverebbero, se aprissero la tomba sotto ai cespugli, la bella tomba bianca in mezzo al giardino. Si chiede se ci sarebbe un corpo, ossa e vestiti e i resti mortali e umanissimi della signora Bric, o se troverebbero invece...
La Bestia aveva avuto Belle per quarantasette anni, undici mesi e dieci giorni: quarantaasette anni, undici mesi e dieci giorni di Belle tra le sue mani, sotto le sue dita, preziosissima Belle che cresceva, vent'anni e poi venticinque, trenta, quaranta, e poi invecchiava giorno dopo giorno dopo giorno, invecchiava con lui e come lui. Belle che rideva nella biblioteca e correva nei giardini del palazzo e accudiva i bambini delle altre – perché non avevano avuto bambini, Belle e la Bestia, e questa era stata una fitta di dolore in una vita altrimenti perfetta.
Belle vestita d'oro, Belle dalle labbra rosse e dagli occhi scuri, Belle e la ragnatela delle sue piccole rughe attorno agli occhi e alla bocca, le pieghe del sorriso di Belle scintillanti sotto ai suoi capelli grigi.
Giorno dopo giorno dopo giorno, il tempo aveva avuto un sapore dolcissimo.
Era stata una buona regina, Belle, e la Bestia aveva cercato di essere un buon re e un buon marito. Punito, vergognoso, umiliato: giustizia era stata fatta, si era detto, e lui avrebbe compensato ogni crudeltà distribuita con leggerezza, ogni mancanza commessa nei confronti del suo popolo, ognuno di quegli errori che aveva fatto nei giorni in cui era stato un principe crudele. Aveva cercato di essere un buon re e un buon marito e il sorriso di Belle la sera, prima che si coricassero insieme, era stata tutta la ricompensa che aveva cercato.
Erano invecchiati vicini, Belle e la Bestia: avevano contato le rughe sui loro visi e avevano mescolato il loro respiro nel letto e avevano diviso tutto, ogni notte di incubi e ogni giorno di sole, e, sulla bilancia delle cose fatte, i secondi avevano pesato più dei primi, erano stati di più e più generosi.
La Bestia aveva fatto del suo meglio per aggrapparsi a quel pensiero – così tanti giorni di sole che avevano avuto insieme – il mattino in cui Belle era morta: non aveva più vent'anni da moltissimo tempo, e aveva invece il cuore stanco, il respiro sempre affaticato. Erano bastati pochi giorni di febbre a portarsela via. Belle era scivolata dal sonno alla morte senza mai riaprire gli occhi e la Bestia le aveva tenuto le mani mentre si facevano freddissime e rigide, le aveva guardato il viso mentre perdeva vita e colore. Si era sdraiato accanto a lei ed aveva ascoltato il suo respiro trasformarsi in un sibilo sottilissimo e poi perdersi nel nulla.
Aveva dovuto decidere dove mettere Belle a riposare, poi. Aveva dovuto decidere dove seppellirla. Dove lasciarla dormire.
Monsieur Tockins – che era curvo e magrissimo e vecchissimo, adesso, più vecchio anche di Lumiére, il quale, quantomeno, pareva essere invecchiato con grazia – l'aveva pregato di alzarsi, al principio, e poi aveva cercato di spingerlo via con infinita gentilezza e poi di tirarlo a sedere, di persuaderlo, di spronarlo, di dirgli che dovevano preparare il corpo, le cameriere dovevano entrare, dovevano vestire Belle e portarla alla cappella e lui doveva...
La Bestia continuava a ripetere che non sapeva dove seppellirla, la biblioteca, la biblioteca poteva essere una buona idea? E alla fine Tockins aveva dovuto chiamare Chicco – che continuavano tutti a chiamare Chicco, anche se adesso aveva cinquant'anni e sette figli ed era tanto alto ed aveva le spalle tanto grosse che sembrava dovesse faticare a passare dalle porte – e, tra tutti e due, erano riusciti a tirare su la Bestia ed a spostarlo in un'altra stanza.
Era stato così che la Bestia aveva visto Belle per l'ultima volta: attraverso la porta socchiusa della loro camera, mentre Chicco portava via lui e le cameriere cominciavano a vestire lei. Prima che quella porta si chiudesse, la Bestia aveva sentito Tockins cominciare a piangere a bassa voce. Era stato un pianto da vecchio, quieto e fievole e stanchissimo, e la Bestia aveva pensato... la Bestia aveva pensato al tetto più alto della torre più alta che dava sul dirupo, a come avesse amato Belle per così tanti anni, così tanti giorni di sole, e adesso che Belle non c'era più l'inverno sarebbe tornato.
Aveva pensato, mentre Chicco lo metteva a letto, aveva pensato di essere vecchio. Quella era una consolazione: la Bestia era vecchio e presto sarebbe stato morto – com'era morta Belle. L'aveva amata per ogni giorno in cui l'aveva conosciuta e non si può smettere di amare una persona che si è amato così.
Doveva solo trovare qualcuno che fosse re al posto suo. Non c'erano figli legittimi e non c'erano figli di sangue e non c'erano nipoti, fratelli, zii e cugini che sarebbero stati felici di sedersi sul trono, ma qualcuno da fare re si trovava sempre. Si era detto che avrebbe fatto re qualcuno che se lo meritasse. Un buon re. Avrebbe avuto cura del suo popolo, la Bestia, perché era stato quello che aveva giurato di fare, anche se Belle adesso era morta e le cose sembravano aver perso d'importanza.
Chicco aveva tirato le tende e la stanza della Bestia era scivolata nell'oscurità.
Quando si era svegliato, la Bestia aveva scoperto di sentirsi bene: bene, benissimo, senza dolorini alle ossa e senza il respiro pesante e senza il bruciore allo stomaco ed alla gola che i suoi medici gli avevano detto essere il principio di un'ulcera divorante. Si era svegliato sentendosi in salute e – e giovane, aveva realizzato con un sussulto. Era così che si era sentito da giovane: sano e pulsante e intero, sano e intero e come guizzante.
Aveva aperto gli occhi.
Anche nella penombra la forma del corpo sotto alle coperte gli era sembrata strana, e poi la Bestia aveva alzato le mani e aveva visto il pelo e gli artigli e le ossa deformi e allora aveva urlato, urlato, urlato, urlato...
Prospettiva, si dice la Bestia. E' tutta una questione di prospettiva.
Le fate sono belle. Parlano della vera bellezza nel cuore, ma si mostrano al mondo con la bellezza negli occhi, nessuno sa che pelle abbia una fata sotto alla magia ma tutte le fate sanno che cosa muove gli uomini sotto la pelle, tutte le fate sanno come colpire basso e come colpire a fondo e come portare giustizia.
Le fate sono giuste com'è giusto il sole, giuste della giustizia cosmica che è lontanissima da ogni pietà. Hanno visto sbocciare e sfiorire regni e imperi e casate, guardano al mondo con occhi vecchissimi. Cinque anni sono cinque anni – anche se sono cinque anni moltiplicati per dodici mesi, cinque primavere piovose e cinque estati grigie, cinque autunni senza sole e cinque inverni senza luce, nel castello in cui non arrivava mai la bella stagione, con una rosa in barattolo ed uno specchio che non riusciva a rompere ed una legione di servitori orribilmente trasformati a tenergli compagnia. Cinque anni sono solo cinque anni, e cinque anni non devono essere sembrati sufficienti, alla fata, per fare il paio con tutti quegli anni di regno incurante, forche e carceri, vedovi, orfani, figli nati morti e morti bambini, pestilenze e carestie. La fata deve aver pensato che non fosse giusto. Che non fosse
equo. Che non ci fosse solo una lezione da apprendere – e la Bestia l'aveva appresa,
oh, se l'aveva appresa – ma che andasse punito, il principe meschino e crudele. Che i morti andassero compensati.
Così, la Bestia aveva avuto cinque anni di infelicità rancorosa e quarantasette anni con Belle, la felicità luminosissima di avere Belle, che lui aveva amato ogni giorno come fosse il primo, quarantasette anni di amore che si faceva sempre più vero ad ogni nuova ruga, ad ogni nuovo sorriso, e adesso ha di nuovo una rosa in un barattolo di vetro ed un castello pieno di servitori mostruosamente trasformati ed un corpo deforme.
Tutto daccapo.
Tutto dal principio.
Ma ora la Bestia
sa cos'è l'amore, amare ed essere amati, e sa che cosa ha perso e sa, sa, sa, che non c'è speranza. Nessuna speranza. La fata l'ha fatto tornare giovane e l'ha fatto tornare mostro e non c'è ragione di pensare che non possa farlo di nuovo, ancora e ancora e ancora, trasformando la vecchiaia in una burla, la morte nel sonno in un sogno irraggiungibile. Vivrà in eterno, pensa certe volte con orrore, vivrò in eterno e vivrò così e tutti vivranno con me nel castello senza sole.
Monsieur Tockins e Lumiére e Chicco con i suoi bambini, da qualche parte nelle credenze del castello, e ciascuna di quelle sue povere vittime, dei suoi poveri compagni di prigionia, che vagano in un posto dove l'inverno dura da sempre.
Sono ostaggi. Devono essere ostaggi. Solo così si spiega tutto: ostaggi perché la Bestia non vada a cercare il tetto più alto della torre più alta, e il dirupo e il crepaccio, per far finire tutto più in fretta.
Forse, quando il conteggio degli anni da mostro farà il paio con il conto di tutti gli anni che ha fatto perdere ai suoi sudditi morti, forse allora la fata tornerà ed avrà pietà e li lascerà andare. Forse. La Bestia si aggrappa a questo pensiero.
Quarantasette anni di Belle, e adesso ha di nuovo in una rosa in un barattolo.
Vorrebbe poter aspettare che qualcuno arrivi ad amarlo – se Belle ha potuto, qualcun altro potrà – ma la Bestia non vuole un'altra Belle. La Bestia ha avuto Belle. Quarantasette anni di Belle. Chicco lo sa. Tockins lo sa. Lo sanno tutti nel castello, tazzine e piatti e candelabri, tutti spettri deformi delle persone che erano: quarantasette anni di Belle, amore che si faceva sempre più vero ad ogni nuovo giorno, non ci sarà nessun'altra Belle a farsi spazio dentro di lui. Nessuna speranza che la rosa rifiorisca.
Siede sulla tomba della sua magnifica sposa, la Bestia, e lascia che i petali cadano ad uno ad uno, meccanicamente, come la neve fuori dalle finestre.
Perciò, questo è quel che non ti dicono delle fate: le fate
non sono umane.