Battaglia Navale, Per la cattivissima iniziativa di San Valentino 2015 di Pseudopolis Yard

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Elos
view post Posted on 27/2/2015, 13:29




Scritte per la malvagissima iniziativa della Battaglia Navale di Pseudopolis Yard.
Stavo progettando di pubblicare tutte le storie tutte insieme - ma mi sono resa conto che siamo al 27,che ne ho ancora almeno due possibili e sicuramente una certa in corso ed ho ventiquattr'ore per trasformare le possibili in sicure e le certe in certissime.
Quindi, comincio a buttar qui quello che ho già pronto. Almeno un paio di queste finiranno su EFP, poi.

***



TITOLO: Niente a nessuno
FANDOM: The Dark Knight Rises (Batman Movieverse)
PROMPT: Bruce/Selina, pilota automatico (richiesto da kuma_cla)
NOTE: Mi sono resa conto solo DOPO aver scritto la storia che ci sarebbe stato bisogno di spendere due parole a proposito del prompt. Il prompt c'è. Giuro. E' invisibile, ma c'è.
Il fatto è che non mi era mai passata neanche per l'anticamera del cervello l'ipotesi di scrivere su questo fandom: ma poi ho letto il prompt e mi sono detta, eh, in effetti quel pilota automatico a sorpresa è un fantastico deus ex machina, ah-ah, troppo facile salvare la storia così. E se non l'avessero salvata?
Oltretutto, apparentemente la DC sta tirando fuori tutta una sequela di bellissime storie che rivedono i personaggi femminili in una chiave più attiva; non saprei, seguo il fumetto a balzelloni, ma devono farsi perdonare MOLTO dopo Man of Steel (anche conosciuto come il-film-del-quale-noi-non-parliamo-ed-è-meglio-così-NON-FARLO-CLARK).
AVVERTIMENTI: Linguaggio scurrile.



La prima vita di Selina Kyle era finita il giorno in cui si era fatta beccare con le mani nella cassa del negozio di dischi all'angolo della strada. Selina avrebbe passato molto altro tempo, dopo, con le mani in posti in cui non avrebbero dovuto essere, ma sarebbe diventata brava, bravissima, eccezionale, a non farsi beccare mai più. Come i gatti, avrebbe imparato ad avere dita leggere e passi felpati e quattro paia di occhi per vedere in ogni direzione. La prima vita di Selina Kyle era finita il giorno in cui si era fatta beccare con le mani in una cassa del negozio di dischi – e la seconda vita di Selina Kyle era finita il giorno in cui era scappata dal riformatorio. L'aveva fatto di notte e senza le scarpe addosso e l'aveva fatto piena di paura e di nausea e di schifo e si era detta che mai più, mai più, mai più...
Questo era stato l'incentivo a diventare così brava, poi. Mai più, mai più, mai più schifo e nausea, mai più. Dita come i gatti e passi felpati.
La terza vita di Selina Kyle era passata al suono di quel nome che avrebbe voluto lasciarsi alle spalle: e finisce così, finisce oggi, con un'esplosione piccola piccola al largo della costa, un gran scoppio di luce senza rumore che si riflette sull'acqua della baia e accende di bianco l'orizzonte.
Finito così. Puff.
La sera, si siede sul tetto della Torre Wayne – non precisamente sulla cima, giusto una dozzina di piani più in basso, dove può appoggiare la schiena ad una delle finestre e schiacciare lo stivale sull'orlo della W gigante dell'insegna – e lascia le gambe a penzoloni nel vuoto. Tiene gli occhi chiusi: se tiene gli occhi chiusi non vede gli edifici in fiamme, le strade invase dalle macerie, il ponte rovinato. A questa altezza non si sentono neanche le sirene.
Non dovevi niente a nessuno, dice lei. Anche nella sua testa, suona piena di rancore.
Rappezzare la città sarà un lavoro lungo e doloroso e ci vorranno anni e non tornerà mai com'era prima: troppo sangue per le strade, troppa gente che ha vissuto per mesi nel terrore, troppe speranze tradite, fiducie derise, il terreno solido della vita normale che scivola via sotto ai piedi e lascia solo uno strato di neve e di orribili tribunali da burla Arriveranno gli avvoltoi, poi, scarafaggi e iene a nutrirsi dei cadaveri – e l'ultima speranza di Gotham se ne è volata sulla baia in un viaggio di sola andata. Puff.
Non dovevi niente a nessuno. Niente a nessuno, niente a nessuno. Quel che aveva potuto dare, l'aveva già dato.
Dietro agli occhi chiusi, Selina vede ancora la nuvola bianca di luce che si era alzata sulla superficie lucida del mare, portandosi via tutto un oceano di possibilità inesplorate.

Quel che rimane è tutto qui.
Niente.
A nessuno.

Il primo mattino della sua terza, nuovissima vita, Selina pigia in una sacca quel poco che vuole portarsi dietro – vestiti e gioielli e denaro saccheggiati alle case dei ricchi, in quei mesi in cui i ricchi venivano spinti a passeggiare su uno strato di ghiaccio sottile come un velo – e poi pigia sull'acceleratore.
Jen se la caverà, si dice. Jen è un'adulta. Jen non è sua responsabilità. Niente è sua responsabilità. Selina non deve niente a nessuno.
La moto schizza attraverso Gotham, passa sotto allo scheletro annerito della metropolitana, tra le macchine rovesciate e i punti in cui l'asfalto si è crepato ed è esploso. Non c'è polizia che possa fermare Selina, l'esercito ha già tutto un elenco di altre gatte – ah-ha! – da pelare e non ci sarà nessun veicolo nerissimo che scenderà dal cielo per impedirle di andarsene. Non ci sarà mai più nessun veicolo nerissimo, a Gotham. Niente bel fusto dalla voce roca. Niente collane di perle, possibilità inesplorate, ma anche niente più piccole esplosioni bianche sulla superficie della baia, e questa è la fine che fanno gli eroi, si dice Selina, digrignando i denti, muoiono così, senza dovere niente a nessuno, pensando di non dovere niente a nessuno, e invece lui avrebbe dovuto ricordarsi che le doveva la vita, a lei, doveva qualcosa a qualcuno, non aveva il diritto di... di andare a bruciare al largo, non aveva il diritto di dare anche quello alla città.
Fuori dal tunnel, Gotham alle sue spalle, sembra di essere entrati in un universo differente: non ci sono macerie, qui, né odore di bruciato, né suoni di sirene o gente con la faccia piena di panico o la sensazione generale e diffusa di trovarsi in una zona di guerra. La strada scivola liscia nella direzione del mare e Selina devia verso la via costiera. In un'ora può essere in autostrada e in sette ore – sei, se la moto tiene questa velocità – può essere a Metropolis. New Troy, Little Bohemia, i quartieri del Centennial, tutte zone di imbecilli che vivono in grande e che sarà un piacere spennare come i polli che sono. Selina vuole lo champagne e vuole gli appartamenti che affacciano sui luminosi grattacieli del centro e vuole i vestiti di seta che calzano come un guanto, Selina vuole la vita luminosa e non avere mai poco.
Selina ha avuto molto poco per molto tempo. Selina sa che gusto ha la fame, la sensazione dello schifo sulla pelle, lo sporco e i topi e le latrine a cielo aperto, e adesso Selina vuole vasche di marmo e acqua calda e fiale di profumi davanti a una specchiera lucente. Una vita luminosa. Una vita perfetta.
Inchioda sul pedale del freno così di botto che la moto quasi si rovescia: quasi, perché quello è un gioiello di ingegneria e aerodinamica, ma se avesse frenato solo una dozzina di metri più avanti sarebbe finita a schiantarsi giù per la scarpata e poi dritta nell'acqua fredda della baia. Selina smonta, assesta un calcio alla moto e poi un altro al parapetto, per sovrappiù, perché la fa sentire bene.
“'fanculo.” Lo dice piano e selvaggiamente. “'fanculo, 'fanculo, 'fanculo.”
Si fotta Gotham e si fotta Jen e si fotta Bruce, soprattutto Bruce deve fottersi un milione di volte, Bruce con il suo complesso del martire e i suoi atti da eroe e la sua tendenza a farsi ammazzare per una maledetta città scura e sporca che non ha mai dato niente a Selina.
Ci saranno gli avvoltoi, adesso, pensa lei, pervasa da un senso di ferocissima soddisfazione. Ci saranno gli avvoltoi su Gotham, si mangeranno la città pezzo per pezzo, ladri e assassini e stupratori, la criminalità organizzata e i pazzi, si mangeranno la città e non ci sarà nessuno a fermarli. Avresti fatto meglio a restare qui, Bruce Wayne, se volevi che la città sopravvivesse.
Morirà più lentamente e morirà nel dolore e saprà – sapranno tutti – che gusto ha la fame, lo schifo sulla pelle, latrine a cielo aperto. I mesi della neve e dei tribunali da burla hanno insegnato loro la paura, la bomba che ticchettava nel cuore della città ha dato loro un assaggio di disperazione, ma adesso saranno gli avvoltoi a completare il lavoro. Avvoltoi e iene e scarafaggi, e nessuno a fermarli.
Selina stride verso il mare, furiosamente, e prende a calci il parapetto finché questo non si ammacca. Deve essersi rotta almeno un dito del piede, ma quasi non sente dolore. Fanculo, dice ancora, fottiti, Bruce, e poi niente a nessuno, niente a nessuno, niente a nessuno.

***



Le occorrono tre giorni per trovare la caverna.
Le sarebbe bastata la metà del tempo, in effetti, se non avesse continuato a fermarsi, a tornare indietro, a ripensarci, a grugnire e a mugugnare e a cambiare idea ogni cinque minuti. Così come sono le cose, invece, le ci vuole un giorno intero per infilarsi nella Torre Wayne e sei ore per trovare Lucius Fox, tre ore per fare un po' di ricerche private e trentasei ore, approssimativamente, per setacciare l'area giusta in cerca di un ingresso.
Si sarebbe aspettata di trovare il posto deserto, ma il ragazzo nella grotta, le gambe immerse fino al ginocchio in una pozza d'acqua scura, alza la torcia e la punta verso di lei e non sembra né sorpreso né spaventato né contrariato.
“La caverna segreta meno segreta della storia,” commenta invece, distrattamente. “Anche tu sei passata dal notaio?”
Selina inarca un sopracciglio e il ragazzo scrolla le spalle:
“Cosa sei venuta a fare?”
Cos'è venuta a fare? A rendere omaggio? A curiosare? A saccheggiare il saccheggiabile, a cercare di capire, a rifornirsi, a...
“Non mi sono mai piaciuti gli avvoltoi,” dice alla fine. Sta provando questa cosa nuova dell'onestà, Selina, per vedere fin dove la porta nella sua terza vita.
Il ragazzo la guarda con curiosità:
“No?”
“No.”
Il sorriso che si allarga sulla faccia del ragazzo – John Blake, Robin Blake, orfano e poliziotto e sopravvissuto – è tutto piegato da una parte.
“Bene,” le dice, “perché qui non ce ne sono.” Arretra di un paio di passi nell'acqua ed una vasta sezione del fondo della grotta sembra sollevarsi lentamente. Le luci si accendono nell'acquedotto alle sue spalle e il rumore che risuona nella grotta, rimbalzando di eco in eco, è quello di un migliaio di ali che sbattono tutte insieme.
“Ci sono solo pipistrelli.”
 
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Elos
view post Posted on 27/2/2015, 13:47




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TITOLO: Tre cose
FANDOM: Games of Thrones/ASOIAF
PROMPT(S): Oberyn/Ellaria, sabbia tra le dita, cenere, il ricordo dei torridi pomeriggi trascorsi insieme (richiesto da kuma_cla)
NOTE: Tre cose, trecento parole. La citazione ad inizio brano viene dai libri (ma non mi chiedete da quale dei libri, perché non ne ho la più pallida idea).
AVVERTIMENTI: Immagini forti.



.tre cose

Can I take a skull to bed with me, to give me comfort in the night? Will it make me laugh, write me songs, care for me when I am old and sick?



Sono tre le cose che Ellaria Sand tiene tra le mani, sulla nave veloce che la riporta a Dorne, con le sue tetre vele nere e i drappi scuri sulla prua e torce accese di notte e di giorno per accompagnare l'ultimo viaggio di Oberyn Martell, tre le cose che tiene tra le mani e la prima è una scatola piena di cenere, perché la tradizione non vuole che i principi di Dorne vengano bruciati, ma il cadavere di Oberyn era stato una mostruosità senza occhi e senza viso e nessuno aveva voluto che fosse quello a tornare a casa da suo fratello e dalle sue otto figlie, la seconda è un fascio di ricordi che ancora le respirano tra i capelli, contro la pelle, l'orlo di una lingua sul suo lobo sinistro e tra i suoi seni, un dito lieve sul polso e due tra le sue cosce, pomeriggi trascorsi con le persiane chiuse, le tende tirate, sotto una tenda di lenzuola intrise con il loro sudore, e la terza è la sensazione di aver avuto per tutto quel tempo solo un pugno di sabbia tra le dita. Bastava rilassare un po' la stretta per vederla scivolare tutta via.
Sono tre le cose che tiene tra le mani, sulla nera nave veloce che la riporta a Dorne, e la prima è una scatola piena di cenere che non potrà portarsi a letto, che non le darà conforto la notte, la seconda è un fascio di ricordi, risate e canzoni e dita e sudore e pelle, tutto mescolato assieme, e la terza è solo un pugno di sabbia. Quando aprirà la mano, pensa Ellaria, quando aprirà le mani, scivolerà tutto via, al suono di quel mai che era stata la sua ultima bugia.

Non lasciarmi sola a questo mondo.
Mai.
 
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Elos
view post Posted on 27/2/2015, 14:04




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TITOLO: Quel che dicono delle fate
FANDOM: La Bella e la Bestia (Disney)
PROMPT: Belle/Bestia, vero più che mai (richiesto da Trick No Treat)
NOTE: Non credo che una sola parola di quel che ho scritto possa essere possibile in nessuno dei potenziali universi alternativi del film. x°D Neanche una parola.
(Tranne una delle considerazioni che ho infilato da qualche parte - *SPOILER*: il principe doveva essere punito, fantastico, ma tutti i benedetti servitori del castello che c'entravano? Mica avevano sputacchiato sulla fata, loro. Tipicamente Disney, questo includere i servitori nella principesca punizione, come fossero decorative parti del suo corpo. Mah.)
AVVERTIMENTI: What if...?; riferimenti al tema del suicidio.



Questo è quel che ti dicono delle fate: le fate sono belle. Belle e potenti. Le fate hanno la magia nella punta delle dita e sotto la pelle, sono giuste, sanno insegnare, conoscono la verità, le fate, sono antiche e sono immortali, hanno visto sbocciare e sfiorire regni e imperi e casate, guardano al mondo con occhi vecchissimi. Questo è quello che ti dicono delle fate.
Questo è quel che non ti dicono delle fate: le fate non sono umane.

Le fate sono belle. Parlano della vera bellezza nel cuore, ma si mostrano al mondo con la bellezza negli occhi, sono e non sono belle, nessuno sa che pelle abbia una fata sotto alla magia, perché le fate hanno la magia nella punta delle dita e sotto la pelle. La magia è la pelle delle fate.
Le fate sono giuste com'è giusto il sole, un vulcano, una cometa, giuste della giustizia cosmica, lontanissima da ogni pietà. Insegnano la verità, le fate, tutta la loro verità, nient'altro che la loro verità, sono antichissime e sono immortali, hanno visto sbocciare e sfiorire regni e imperi e casate, guardano al mondo con occhi vecchissimi e questo dà loro prospettiva.
La Bestia sospetta che sia questa la ragione per la quale sta venendo punito. Prospettiva.



A sedici anni, la Bestia aveva avuto un nome. Era stato giovane e bello e ricco, ed egoista, viziato, cattivo. Aveva avuto un regno da governare e l'aveva fatto malamente e con noncuranza: le carestie e le pestilenze erano passate con più durezza di quanto fosse necessario, c'erano stati più morti del dovuto ad ogni rissa d'osteria, più orfani e più vedovi e più genitori costretti a seppellire i propri figli nati morti e morti bambini, più tasse e meno giustizia, carceri più piene e forche più attive.
Così, la fata era venuta ed aveva amministrato giustizia.
A diciassette anni, la Bestia aveva avuto un corpo deforme ed una rosa in un barattolo di vetro.
A diciotto anni, la Bestia aveva urlato e imprecato, aveva bestemmiato contro Dio e gli uomini e le fate, aveva bruciato i suoi vecchi vestiti e rotto tutti gli specchi nelle sue stanze e lacerato ogni libro che gli ricordava come fosse difficile girarne le pagine, adesso, come fosse complicato scrivere e studiare quando non si avevano più le dita per farlo. Avrebbe voluto leggere storie, la Bestia, scappare nei racconti degli altri per sfuggire al proprio. Ma non sarebbe stato giusto, doveva aver pensato la fata, non sarebbe stato equo. Niente pollici opponibili per la Bestia. Niente dita prensili.
A diciannove anni aveva scoperto di riuscire ad arrampicarsi senza fatica fino al tetto più lontano della torre più alta del suo castello: e così a vent'anni aveva guardato giù, giù, lontanissimo nel crepaccio e nel dirupo, e si era detto che... tutto sommato, si era detto che...
Non aveva ancora compiuto ventun anni, il giorno in cui era arrivata Belle.
A quel punto, la Bestia non aveva più avuto un nome ed aveva già trascorso cinque anni, dodici mesi moltiplicato per cinque, cinque primavere piovose e cinque estati grigie, cinque autunni senza sole e cinque inverni senza luce, nel castello in cui non arrivava mai la bella stagione, con una rosa in barattolo ed uno specchio che non riusciva a rompere ed una legione di servitori orribilmente trasformati a tenergli compagnia.

Questa è un'altra cosa che non si riesce a spiegare.
La Bestia ricorda chiaramente la sfortunata giornata in cui aveva tirato una tazza di brodo bollente addosso al cuoco, pover'uomo. Ricorda ogni mala parola rivolta a Tockins, ogni insulto sprezzate dedicato a Lumiére, ogni noncurante sgarberia che era toccata alla signora Bric, ad una delle cameriere, a ciascuna delle decine di persone che gli spazzavano le stanze, gli pulivano le camere, gli preparavano la cena. Ricorda che erano stati le sue vittime – come la gente del suo regno, anche loro ostaggi del suo egoismo e dei suoi malumori. Eppure, la fata li aveva messi tutti nel conto: tutti nella maledizione, tutti insieme, vittime e aguzzino, tutti prigionieri del castello senza sole, tutti deformi, oscenamente mutati, tutti privati della propria umanità.
Sono passati tanti anni, che poi sono diventati decenni e che tra poco saranno un secolo: ma questo la Bestia non riesce ancora a spiegarselo.

La signora Bric non aveva mai, mai, mai, fatto nulla in vita sua per il quale dovesse essere punita. La signora Bric era stata buona e paziente e misericordiosa e l'avevano sepolta con gran dolore nel mezzo del giardino del castello, sotto a un fascio di cespugli di rose bianchissime e di lavanda. Belle aveva pianto molto e si era tenuta stretto Chicco al petto; tre anni dopo Chicco aveva avuto una coppia di gemelli tutti suoi da tenere in braccio e la Bestia aveva pensato che fosse terribilmente ingiusto, terribilmente sbagliato, che la signora Bric non avesse vissuto abbastanza a lungo da veder nascere i suoi primi nipoti.
La Bestia guarda Lumiére e Tockins, oggi, e si dice che in prospettiva la morte della signora Bric vada considerata un dono. Un regalo. Un bellissimo regalo, il buon Dio ha avuto pietà di lei e l'ha lasciata a riposare sotto la lavanda e le rose.



Certe volte si chiede cosa troverebbero, se aprissero la tomba sotto ai cespugli, la bella tomba bianca in mezzo al giardino. Si chiede se ci sarebbe un corpo, ossa e vestiti e i resti mortali e umanissimi della signora Bric, o se troverebbero invece...



La Bestia aveva avuto Belle per quarantasette anni, undici mesi e dieci giorni: quarantaasette anni, undici mesi e dieci giorni di Belle tra le sue mani, sotto le sue dita, preziosissima Belle che cresceva, vent'anni e poi venticinque, trenta, quaranta, e poi invecchiava giorno dopo giorno dopo giorno, invecchiava con lui e come lui. Belle che rideva nella biblioteca e correva nei giardini del palazzo e accudiva i bambini delle altre – perché non avevano avuto bambini, Belle e la Bestia, e questa era stata una fitta di dolore in una vita altrimenti perfetta.
Belle vestita d'oro, Belle dalle labbra rosse e dagli occhi scuri, Belle e la ragnatela delle sue piccole rughe attorno agli occhi e alla bocca, le pieghe del sorriso di Belle scintillanti sotto ai suoi capelli grigi.
Giorno dopo giorno dopo giorno, il tempo aveva avuto un sapore dolcissimo.
Era stata una buona regina, Belle, e la Bestia aveva cercato di essere un buon re e un buon marito. Punito, vergognoso, umiliato: giustizia era stata fatta, si era detto, e lui avrebbe compensato ogni crudeltà distribuita con leggerezza, ogni mancanza commessa nei confronti del suo popolo, ognuno di quegli errori che aveva fatto nei giorni in cui era stato un principe crudele. Aveva cercato di essere un buon re e un buon marito e il sorriso di Belle la sera, prima che si coricassero insieme, era stata tutta la ricompensa che aveva cercato.
Erano invecchiati vicini, Belle e la Bestia: avevano contato le rughe sui loro visi e avevano mescolato il loro respiro nel letto e avevano diviso tutto, ogni notte di incubi e ogni giorno di sole, e, sulla bilancia delle cose fatte, i secondi avevano pesato più dei primi, erano stati di più e più generosi.
La Bestia aveva fatto del suo meglio per aggrapparsi a quel pensiero – così tanti giorni di sole che avevano avuto insieme – il mattino in cui Belle era morta: non aveva più vent'anni da moltissimo tempo, e aveva invece il cuore stanco, il respiro sempre affaticato. Erano bastati pochi giorni di febbre a portarsela via. Belle era scivolata dal sonno alla morte senza mai riaprire gli occhi e la Bestia le aveva tenuto le mani mentre si facevano freddissime e rigide, le aveva guardato il viso mentre perdeva vita e colore. Si era sdraiato accanto a lei ed aveva ascoltato il suo respiro trasformarsi in un sibilo sottilissimo e poi perdersi nel nulla.
Aveva dovuto decidere dove mettere Belle a riposare, poi. Aveva dovuto decidere dove seppellirla. Dove lasciarla dormire. Monsieur Tockins – che era curvo e magrissimo e vecchissimo, adesso, più vecchio anche di Lumiére, il quale, quantomeno, pareva essere invecchiato con grazia – l'aveva pregato di alzarsi, al principio, e poi aveva cercato di spingerlo via con infinita gentilezza e poi di tirarlo a sedere, di persuaderlo, di spronarlo, di dirgli che dovevano preparare il corpo, le cameriere dovevano entrare, dovevano vestire Belle e portarla alla cappella e lui doveva...
La Bestia continuava a ripetere che non sapeva dove seppellirla, la biblioteca, la biblioteca poteva essere una buona idea? E alla fine Tockins aveva dovuto chiamare Chicco – che continuavano tutti a chiamare Chicco, anche se adesso aveva cinquant'anni e sette figli ed era tanto alto ed aveva le spalle tanto grosse che sembrava dovesse faticare a passare dalle porte – e, tra tutti e due, erano riusciti a tirare su la Bestia ed a spostarlo in un'altra stanza.
Era stato così che la Bestia aveva visto Belle per l'ultima volta: attraverso la porta socchiusa della loro camera, mentre Chicco portava via lui e le cameriere cominciavano a vestire lei. Prima che quella porta si chiudesse, la Bestia aveva sentito Tockins cominciare a piangere a bassa voce. Era stato un pianto da vecchio, quieto e fievole e stanchissimo, e la Bestia aveva pensato... la Bestia aveva pensato al tetto più alto della torre più alta che dava sul dirupo, a come avesse amato Belle per così tanti anni, così tanti giorni di sole, e adesso che Belle non c'era più l'inverno sarebbe tornato.
Aveva pensato, mentre Chicco lo metteva a letto, aveva pensato di essere vecchio. Quella era una consolazione: la Bestia era vecchio e presto sarebbe stato morto – com'era morta Belle. L'aveva amata per ogni giorno in cui l'aveva conosciuta e non si può smettere di amare una persona che si è amato così.
Doveva solo trovare qualcuno che fosse re al posto suo. Non c'erano figli legittimi e non c'erano figli di sangue e non c'erano nipoti, fratelli, zii e cugini che sarebbero stati felici di sedersi sul trono, ma qualcuno da fare re si trovava sempre. Si era detto che avrebbe fatto re qualcuno che se lo meritasse. Un buon re. Avrebbe avuto cura del suo popolo, la Bestia, perché era stato quello che aveva giurato di fare, anche se Belle adesso era morta e le cose sembravano aver perso d'importanza.
Chicco aveva tirato le tende e la stanza della Bestia era scivolata nell'oscurità.

Quando si era svegliato, la Bestia aveva scoperto di sentirsi bene: bene, benissimo, senza dolorini alle ossa e senza il respiro pesante e senza il bruciore allo stomaco ed alla gola che i suoi medici gli avevano detto essere il principio di un'ulcera divorante. Si era svegliato sentendosi in salute e – e giovane, aveva realizzato con un sussulto. Era così che si era sentito da giovane: sano e pulsante e intero, sano e intero e come guizzante.
Aveva aperto gli occhi.
Anche nella penombra la forma del corpo sotto alle coperte gli era sembrata strana, e poi la Bestia aveva alzato le mani e aveva visto il pelo e gli artigli e le ossa deformi e allora aveva urlato, urlato, urlato, urlato...



Prospettiva, si dice la Bestia. E' tutta una questione di prospettiva.



Le fate sono belle. Parlano della vera bellezza nel cuore, ma si mostrano al mondo con la bellezza negli occhi, nessuno sa che pelle abbia una fata sotto alla magia ma tutte le fate sanno che cosa muove gli uomini sotto la pelle, tutte le fate sanno come colpire basso e come colpire a fondo e come portare giustizia.
Le fate sono giuste com'è giusto il sole, giuste della giustizia cosmica che è lontanissima da ogni pietà. Hanno visto sbocciare e sfiorire regni e imperi e casate, guardano al mondo con occhi vecchissimi. Cinque anni sono cinque anni – anche se sono cinque anni moltiplicati per dodici mesi, cinque primavere piovose e cinque estati grigie, cinque autunni senza sole e cinque inverni senza luce, nel castello in cui non arrivava mai la bella stagione, con una rosa in barattolo ed uno specchio che non riusciva a rompere ed una legione di servitori orribilmente trasformati a tenergli compagnia. Cinque anni sono solo cinque anni, e cinque anni non devono essere sembrati sufficienti, alla fata, per fare il paio con tutti quegli anni di regno incurante, forche e carceri, vedovi, orfani, figli nati morti e morti bambini, pestilenze e carestie. La fata deve aver pensato che non fosse giusto. Che non fosse equo. Che non ci fosse solo una lezione da apprendere – e la Bestia l'aveva appresa, oh, se l'aveva appresa – ma che andasse punito, il principe meschino e crudele. Che i morti andassero compensati.
Così, la Bestia aveva avuto cinque anni di infelicità rancorosa e quarantasette anni con Belle, la felicità luminosissima di avere Belle, che lui aveva amato ogni giorno come fosse il primo, quarantasette anni di amore che si faceva sempre più vero ad ogni nuova ruga, ad ogni nuovo sorriso, e adesso ha di nuovo una rosa in un barattolo di vetro ed un castello pieno di servitori mostruosamente trasformati ed un corpo deforme.
Tutto daccapo.
Tutto dal principio.
Ma ora la Bestia sa cos'è l'amore, amare ed essere amati, e sa che cosa ha perso e sa, sa, sa, che non c'è speranza. Nessuna speranza. La fata l'ha fatto tornare giovane e l'ha fatto tornare mostro e non c'è ragione di pensare che non possa farlo di nuovo, ancora e ancora e ancora, trasformando la vecchiaia in una burla, la morte nel sonno in un sogno irraggiungibile. Vivrà in eterno, pensa certe volte con orrore, vivrò in eterno e vivrò così e tutti vivranno con me nel castello senza sole. Monsieur Tockins e Lumiére e Chicco con i suoi bambini, da qualche parte nelle credenze del castello, e ciascuna di quelle sue povere vittime, dei suoi poveri compagni di prigionia, che vagano in un posto dove l'inverno dura da sempre.
Sono ostaggi. Devono essere ostaggi. Solo così si spiega tutto: ostaggi perché la Bestia non vada a cercare il tetto più alto della torre più alta, e il dirupo e il crepaccio, per far finire tutto più in fretta.
Forse, quando il conteggio degli anni da mostro farà il paio con il conto di tutti gli anni che ha fatto perdere ai suoi sudditi morti, forse allora la fata tornerà ed avrà pietà e li lascerà andare. Forse. La Bestia si aggrappa a questo pensiero.

Quarantasette anni di Belle, e adesso ha di nuovo in una rosa in un barattolo.
Vorrebbe poter aspettare che qualcuno arrivi ad amarlo – se Belle ha potuto, qualcun altro potrà – ma la Bestia non vuole un'altra Belle. La Bestia ha avuto Belle. Quarantasette anni di Belle. Chicco lo sa. Tockins lo sa. Lo sanno tutti nel castello, tazzine e piatti e candelabri, tutti spettri deformi delle persone che erano: quarantasette anni di Belle, amore che si faceva sempre più vero ad ogni nuovo giorno, non ci sarà nessun'altra Belle a farsi spazio dentro di lui. Nessuna speranza che la rosa rifiorisca.
Siede sulla tomba della sua magnifica sposa, la Bestia, e lascia che i petali cadano ad uno ad uno, meccanicamente, come la neve fuori dalle finestre.



Perciò, questo è quel che non ti dicono delle fate: le fate non sono umane.
 
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view post Posted on 28/2/2015, 15:47
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Signora delle Virgole

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Lo sapevo che mi avresti fatta soffrire malissimo, lo sapevo, ma come si fa a non divorare ogni virgola delle tue storie? Come si fa, mi chiedo? Sono troppo belle per non cedere alla tentazione!
E quindi leggo di Selina, così umana nella sua fuga disperata e malriuscita dalle responsabilità, e soffro un pochino. Solo un pochino, perché poi c'è un bel raggio di sole alla fine a ridare speranza.
Poi leggo di Ellaria e del suo pugno di sabbia e del suo vaso di ceneri, e lì la sofferenza si fa più grande, perché Oberyn era una presenza troppo ingombrante perché la sua mancanza possa passare in sordina.
Ma alla fine leggo di Belle e della Bestia, di fate inumane e crudeli nella loro visione di giustizia, di amori lunghi e bellissimi e da fiaba, e di fiabe che un per sempre felici e contenti non ce l'hanno affatto, non più.
Ed eccola lì, la sofferenza. Lo sapevo che sarebbe arrivata, lo sapevo, e la vedi la nuova crepa nel mio povero cuore? La vedi?
Ecco. Sentiti in colpa.
Però diavolo se ne è valsa la pena! :wub:
 
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